24 giugno 2013

GRAN ZEBRU'


      L'agghiacciante tragedia del Gran Zebrù, dove ieri sono morti 6 alpinisti in un solo giorno, mi riporta indietro di 27 anni quando affrontai, con un altro alpinista, quella montagna maledetta.
   Era il settembre 1986 e anche noi dormimmo al rifugio Pizzini: dovevamo iniziare la salita alle 3 di notte ma per contrattempi diversi ci mettemmo in marcia alle 4.30: fu il nostro errore. Superammo in cordata la zona dei seracchi e giungemmo al cosiddetto “passo della bottiglia”. Si chiamava così perchè ha la forma di un collo di bottiglia ed è ripidissimo. Non era possibile entrarci se le cordate che ti precedevano non erano uscite dalla cima, mettersi in coda significava beccare scariche di sassi e roccia che franavano continuamente.
  Lì dovemmo aspettare per ore il nostro turno e quando cominciammo l'ascesa finale, sul ghiacciaio con i ramponi e le picozze, era ormai chiaro che il tempo a nostra disposizione non sarebbe stato sufficiente per arrivare alla vetta.
  Ci arrampicammo quasi freneticamente ma fù inutile. Alle 12.30, tra continue slavine e quando già si vedeva il culmine della montagna, dovemmo accettare l'evidenza che il caldo rendeva la neve troppo cedevole ogni minuto che passava: il pericolo era molto alto. Tornammo a valle.
  Ho ripensato spesso, nel corso degli anni, agli eventi di quel giorno, al senso della vita e alla intuizione della morte. Da allora sul Gran Zebrù sono morte decine e decine di persone


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