L'agghiacciante tragedia del Gran Zebrù, dove ieri sono morti 6 alpinisti
in un solo giorno, mi riporta indietro di 27 anni quando affrontai,
con un altro alpinista, quella montagna maledetta.
Era il settembre
1986 e anche noi dormimmo al rifugio Pizzini: dovevamo iniziare la salita alle 3
di notte ma per contrattempi diversi ci mettemmo in marcia alle 4.30:
fu il nostro errore. Superammo in cordata la zona dei seracchi e
giungemmo al cosiddetto “passo della bottiglia”. Si chiamava così
perchè ha la forma di un collo di bottiglia ed è ripidissimo. Non
era possibile entrarci se le cordate che ti precedevano non erano
uscite dalla cima, mettersi in coda significava beccare scariche di
sassi e roccia che franavano continuamente.
Lì dovemmo aspettare per
ore il nostro turno e quando cominciammo l'ascesa finale, sul
ghiacciaio con i ramponi e le picozze, era ormai chiaro che il tempo a
nostra disposizione non sarebbe stato sufficiente per arrivare alla vetta.
Ci
arrampicammo quasi freneticamente ma fù inutile. Alle 12.30, tra
continue slavine e quando già si vedeva il culmine della montagna,
dovemmo accettare l'evidenza che il caldo rendeva la neve troppo
cedevole ogni minuto che passava: il pericolo era molto alto.
Tornammo a valle.
Ho ripensato spesso, nel corso degli anni, agli
eventi di quel giorno, al senso della vita e alla intuizione della
morte. Da allora sul Gran Zebrù sono morte decine e decine di
persone
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